Gigi Panarelli, ‘Dimostriamo al mondo che a Taranto valiamo’

Il tecnico in una lunga intervista a La Gazzetta del Mezzogiorno: ‘Mi vedo ancora sulla panchina rossoblu’

TARANTO
01.04.2020 12:39


Di Lorenzo D’Alò - La Gazzetta del Mezzogiorno 

Il Taranto, la pausa forzata e la necessità di avviare un’operazione-verità. È tempo di provarci, sapendo che la verità nel calcio non esiste. Spesso ciò che spacciamo per verità è solo la nostra opinione. E allora, meglio parlare di evidenza. Corre su un doppio binario. Due binari, insomma. Morti sin quanto si vuole, ma separati. C’è il campionato della squadra: è andato avanti finché si è potuto giocare, quindi anche dopo il crollo delle ambizioni e la profonda revisione dell’organico. E c’è la stagione della società: l’attività non può fermarsi, prosegue sotto traccia, pur rimanendo stretta nella morsa di uno scetticismo generale. Scetticismo che ha raggiunto picchi di acclarata disapprovazione (il dissenso, la diserzione) e conosciuto eccessi di inaccettabile volgarità (le minacce, le intimidazioni). Chi tifa per lo sfascio, è esentato dalla lettura di questo tentativo di capire quanto è avvenuto nel Taranto sino all’8 marzo scorso, che è l’ultima domenica in cui il campo ha avuto voce. Conviene partire dall’inizio, tenendo sempre a mente la successione dei fatti. Perché poco accade per caso, che è mutevole per definizione. Molto succede perché si fanno scelte e si prendono decisioni. L’inizio, dunque. L’inizio è Nicola Ragno, l’allenatore che, nelle aspettative di quasi tutti, avrebbe dovuto vincere il campionato. E che, dopo otto partite, la metà delle quali perse, è stato esonerato. Errore? Nessuno può affermarlo con certezza, neanche chi continua a rimpiangerlo, dimenticando che nella costruzione della squadra ha avuto carta bianca, salvo accettare qualche imposizione (D’Agostino). Qui l’errore è tutto del tecnico di Molfetta, che avrebbe dovuto opporsi, avendo la credibilità per farlo. O io o lui: serviva coraggio e Ragno non l’ha avuto, cercando un laborioso recupero-inserimento dell’ex capitano, a lungo frenato da una condizione fisica non ottimale. L’inizio è anche una «rosa» carica di nomi forti, per cui risultava fondato il giudizio, quasi unanime, sulla competitività dell’organico, ritenuto all’altezza della missione: vincere il campionato. Ragno più una squadra di valori assoluti (over) e di giovani spendibili (under) più una piazza in fiduciosa attesa. Un’addizione facile, sulla carta. E invece il totale ha dato - stava dando - una somma sbagliata. Perché? Domanda a risposta multipla, visto che le ragioni di una stagione «sbagliata» sono svariate e di diversa natura.,L’inizio finisce con l’esonero di Ragno. C’è poi un «dopo» contraddittorio, fatto di alti e bassi, generosi slanci e  rovinose cadute. Un «dopo» che riparte da Luigi Panarelli, il tecnico a cui la società aveva dato, forse frettolosamente, il benservito in diretta tv (tonfo di Cerignola ai playoff). Richiamarlo è una specie di automatismo, almeno per Giove. E Panarelli torna. E aggrega, recupera, smussa, esalta. Fa ciò che serve. Niente discorsi di popolo, ma colloqui mirati che ricreano responsabilità e generano nuova energia. Per un po’ funziona (quattro vittorie di fila). Poi succede che la squadra si siede, ritagliandosi un momento di annoiata involuzione. Perde con Gravina (in casa), Fasano (in trasferta) e Nocerina (in casa): la stagione va in malora, diventando irrecuperabile. Da questo punto in poi, è opportuno che a spiegare sia proprio Panarelli. Ora, a domanda può rispondere. Finalmente. L’intervista non ha il ritmo (e la naturalezza) di un colloquio dal vivo. Il distanziamento sociale ci impone una discussione telefonica. Ve la proponiamo così come si è sviluppata.

Ha senso regalare pensieri al calcio, mentre l’umanità trema per la pandemia? 

«Oggi la priorità è la salute. Tutto il resto è secondario. Ma ognuno di noi ha disegnato la propria esistenza inseguendo un sogno, un ideale, una passione. Io vivo di calcio. Pensare al calcio, per me, è naturale. Inevitabile».

Da Taranto-Gladiator a Gladiator-Taranto sono diciotto partite. E sono le sue partite. Trovi una sintesi del calcio prodotto sino all’8 marzo. Aritmetica, concettuale, fotografica, quella che vuole.

«Facile far parlare i numeri. Ho lavorato su un progetto che non era il mio. Ma avevo lasciato delle tracce e da lì sono ripartito, cercando la complicità di tutti. Sono rientrato nel gruppo, portando concetti e valori in cui credo»

Quattro vittorie di fila, sfruttando quale misteriosa vitalità e inculcando quali innovativi principi?

«Abbiamo intrapreso un percorso, lavorando sul fisico e sulla tattica. Non solo quattro vittorie. Anche 13 gol fatti e 1 subìto. E soprattutto l’attenzione di tutti verso ciò che proponevo».

Poi il baratro delle tre sconfitte consecutive. C’interessa comprendere la genesi di quel passaggio a vuoto. Solo partite approcciate male e proseguite peggio?

«Col Gravina potevamo fare gol subito: non uno ma quattro. Poi siamo andati sotto su una palla inattiva. Non fu sbagliato l’approccio. A Fasano prima frazione dignitosa. Nella ripresa la squadra è venuta clamorosamente meno e abbiamo perso con merito. Con la Nocerina, prima di soccombere, ci sono i due gol ingiustamente annullati, un palo e diversi salvataggi sulla linea di porta. Insomma, se proprio vogliamo trovare una matrice comune, io la rintraccerei nella mole, davvero considerevole, di episodi negativi».

È una stagione stramba e nemmeno occorre ricordare perché. Sono successe cose che si fa fatica a credere che siano accadute davvero. Il presidente che esonera se stesso; la partita persa a tavolino per la sciagurata decisione di far scendere in campo, per una manciata di minuti, il difensore Kosnic a trasferimento non ancora perfezionato; ancora il presidente che si arrende all’evidenza della classifica, alzando bandiera bianca con improvvido anticipo; l’esclusione dal progetto del calciatore più qualitativo. Lei, ogni volta, che cosa ha pensato?

«Che era mio dovere salvaguardare l’integrità psicologica del gruppo. Io lavoro sul campo. Il mio pensiero, alla fine, va sempre lì».

Quando subentra a Ragno, che idea ha del Taranto? Lo ritene potenzialmente in grado di vincere il campionato?

«Sì. Penso sia una buona squadra composta da ottimi giocatori, non tutti, però, congeniali al progetto vincente che stava alla base. Mancava qualcosa. E sarebbe arrivata a dicembre. Su questo punto col presidente ci fu subito totale convergenza. La pensavamo allo stesso modo».

Esiste la partita da fa da spartiacque della stagione: di qua il Taranto che doveva vincere il campionato, di là il Taranto che non ce la farà mai? Insomma, è possibile datare il crollo delle ambizioni?

«Esiste, semmai, la partita che mi suggerisce di essere sulla strada giusta. Dopo lo 0-4 di Francavilla in Sinni mi convinco che il Taranto, ritoccato adeguatamente, può vincere il campionato. Poi, però, cominciano gli smottamenti, le frenate, le scollature. Non c’è una data del crollo. Ci sono le tappe di una resa progressiva».

Quando la società decide di bonificare l’organico, dà in pasto all’opinione pubblica la lista degli epurabili. In quei giorni quanto diventa complicato gestire il gruppo?

«Mentre si avvicina il mercato,  un ex dirigente va in tv e fa i nomi dei calciatori che non avrebbero più fatto parte del progetto. Commette un errore imperdonabile perché rischia di destabilizzare lo spogliatoio. Così tocca farmi carico delle ansie dei calciatori, raccontando loro la verità. E gli scompensi vengono attutiti».

È la prima linea a subire i tagli più dolorosi. Via  Croce, Favetta, D'Agostino, cioè gol e qualità. Lei non si oppone o almeno non risulta. Resiste al suo posto. E sono in molti a chiedersi perché lo faccia.

«A Coverciano ci hanno insegnato che le dimissioni non si danno mai. Questione di etica professionale più che di calcolo economico. Se credi in quello che fai, non lasci le cose a metà. Sull’attacco erano comunque in corso delle valutazioni. Stavamo cercando qualcosa di diverso. Croce, per esempio, chiedeva maggiore minutaggio e io non potevo garantirglielo. Favetta, dopo quell’errore dal dischetto, non era più lui: mi confessò che voleva cambiare aria, non sopportando le pressioni della piazza. L’esclusione di D’Agostino l’ho invece subìta. Ero contrario e l’ho detto».

Un allenatore deve essere credibile e coerente. Pensa di esserlo stato sempre?

«Penso di sì. Sono cinque anni che alleno e ho avuto sei-sette spogliatoi da gestire perché dopo ogni mercato cambiano le dinamiche relazionali all’interno di un gruppo, e ho sempre fondato il rapporto sulla correttezza. La offro e la pretendo. Solo così è possibile crescere».

Ha un calcio preciso in testa e ne insegue l’esattezza in ogni partita o ritiene che tutte le volte bisogna inventare, mediare, adattarsi?

«L’allenatore moderno è chiamato ad evolversi continuamente. Non è più tempo di integralismi. Lavoro su più sistemi di gioco. E sui tanti modi di interpretare una partita condizionata com’è dalle cosiddette variabili esterne: la forza degli avversari, lo stato di forma dei singoli, la strategia da adottare». 

Spesso, nei momenti di difficoltà, si fa cogliere dalla smania di intervenire, correggere, aggiustare. E nel tentativo di correre ai ripari, qualche volta esagera, portando la squadra fuori equilibrio. Lo considera un difetto di crescita?

«Penso che un po’ tutti facciano riferimento alle partite di Gravina e Francavilla, parlo dello scorso campionato. Ma ci si dimentica di tutte le altre partite dove le correzioni, anche robuste, hanno prodotto benefici innegabili. A Gravina, per esempio, riempii la formazione di attaccanti, portando in mezzo al campo i due migliori palleggiatori: D’Agostino e Salatino. Lo scopo era quella di velocizzare i tempi di esecuzione della manovra, nel tentativo di stanare un avversario che si era chiuso. Non fu sufficiente».

Non basta sapere di calcio per fare l’allenatore. La didattica è fondamentale.

«È il passaggio decisivo. Si tratta di trasferire ciò che sai nella testa dei calciatori, partendo dalla postura del corpo che deve essere corretta. Perché se un centrocampista dà le spalle al lato opposto, si preclude una visuale di gioco. Ma la didattica da sola non basta. Un allenatore deve avere personalità. Deve essere percepito come il leader». 

C’è chi le rimprovera di non avere cultura del gioco, di non saper leggere le partite e misurare gli avversari. Come si difende?

«Rispondo che è falso. Ci sono state prestazioni in cui la bellezza del gioco ha rimandato al Taranto di Dionigi. L’ho letto. Non me lo sto inventando. E partite vinte grazie agli opportuni accorgimenti, ovvero in forza di una lettura corretta. Penso alla partita di Sorrento».

Che cos’è il bel gioco? L’allenatore colombiano Maturana ha risposto così: «Il bel gioco è quando la gente se ne accorge».

«Il bel gioco da solo non fa vincere. È la qualità della prestazione che ti avvicina maggiormente alla vittoria. Il bel gioco è un dato soggettivo. Per Klopp è la capacità di arrivare in porta dopo tre passaggi. Per Guardiola è l’esaltazione del possesso palla prima dell’imbucata decisiva».

L’idea, l’intuizione, la mossa di cui va maggiormente fiero.

«Mi piace allargare le possibilità d’impiego dei calciatori che alleno. Convincerli che possono fare l’una e l’altra cosa. Penso a D’Agostino che non era abituato a curare la fase di non possesso, alla versatilità di Ferrara, a Marino che da interno di centrocampo fa il terzino, a Pelliccia che nasce centrocampista».

Nella sua scheda di presentazione accenna alla necessità di cambiare pelle, conservando l’identità. Ma che cos’è l’identità di una squadra? 

"È qualcosa che rimanda alla mentalità e all’atteggiamento». 

Il suo allenatore di riferimento?

«Ho avuto la fortuna nella mia carriera di avere allenatori importanti: Mazzone, Mondonico, Gigi Simoni, in ritiro con la Roma ho visto lavorare Capello. A tutti ho rubato qualcosa. Sono stato una spugna. Ora faccio sintesi. Perché col copia e incolla non si fa strada»

Taranto è il luogo dove il calcio si è spesso arenato. Non si è evoluto. È una piazza difficile, con il culto del passato e senza la benché minima idea di futuro. Servirebbe una rivoluzione culturale. Lei sarebbe disposto a farla?

«Serve uno sforzo corale per un processo che, oltre a coinvolgere tutti, deve avere due cardini: l’orgoglio e la progettualità. Dobbiamo dimostrare al mondo che a Taranto valiamo».

Quando l’emergenza Covid 19 sarà finita, anche il calcio dovrà fare l’inventario delle proprie macerie. Sembra inevitabile un drastico ridimensionamento.

«Mi conforta l’idea che questa fermata generale ci stia fornendo la possibilità di una presa di coscienza individuale. Ripartire sarà come rinascere. Viverla come un’occasione: non ci resta altro».

Fosse in Giove, e ammesso che Giove abbia ancora voglia di provvedere ai bisogni del calcio rossoblù, la concederebbe un’altra possibilità a Panarelli?

«Sì, per due ragioni: dare continuità al lavoro svolto e condividere il progetto sin dalla sua stesura. Il calcio è fatto di scelte da indovinare e di tempi da rispettare. Non bisogna, ogni volta, smontare tutto. Occorre continuità programmatica sull’esempio del Chievo di Delneri, della scalata del Sassuolo, dell’Atalanta di Gasperini, della Lazio di Inzaghi. Guardo a quei modelli. E ai miei 100 punti in 52 partite da allenatore del Taranto. Ed è su quella panchina che mi rivedo ancora».

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